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J.R.R. Tolkien

Tolkien va ormai considerato non solo un autore di successo, ma come un autentico classico. Egli ha riproposto, in pieno ventesimo secolo, il genere letterario epico, ridando dignità letteraria all’antichissimo genere della narrativa dell’immaginario. Qualcosa di più, insomma, di una semplice fantasy. Non è un caso, infatti, che sia difficile, quasi impossibile, trovare dei suoi eredi.

L’epica di Tolkien, come la grande epica classica, è caratterizzata dalla presenza del senso religioso. Con molta chiarezza. Altro che definirlo “il signore degli equivoci”, o negare con ottusa ostilità la presenza della visione cristiana nella sua opera, esaltando magari una presunta “paganità” dell’opera. Il grande scrittore inglese era permeato di una profonda religiosità, attinta direttamente alla scuola del beato cardinale Newman. Se nel romanzo non esplicita mai il suo cattolicesimo, è perché – da cattolico inglese- inserito quindi in una tradizione tragica, fatta di secoli di persecuzione e clandestinità, sapeva che la Verità in un contesto ostile va annunciata in tutta la sua pienezza, ma con prudenza.

Anni fa, nel mio libro Tolkien il mito e la Grazia ebbi a definire lo scrittore di Oxford «l’Omero cristiano del ‘900». Questo a ragione del suo partire dal Mythos per arrivare al Logos: dalla ricerca della verità, dalla domanda, che è la dimensione dei miti, all’incontro con la risposta, che è il Logos, il Significato. Oggi lo accosterei per molti aspetti a Shakespeare. Il bardo di Stratford, che molti studi recenti hanno dimostrato esser stato quasi certamente un cattolico clandestino nella terrificante tempesta delle persecuzioni elisabettiane, seppe parlare al cuore degli uomini con il linguaggio della poesia, del teatro, della rappresentazione buffa o tragica della realtà, ricordando loro l’esistenza di cose belle e di un bene da perseguire. 

Così fece tre secoli dopo Tolkien, che curiosamente veniva dalla stessa zona di Inghilterra di Shakespeare, quella delle Midlands. Così come l’Inghilterra rinascimentale, un tempo perla della cristianità, aveva abbandonato la fede per  adorare gli idoli della ricchezza, del potere e dell’orgoglio, così Tolkien ci descrive in tutte le sue opere, dallo Hobbit al Signore degli Anelli, alSilmarillion, cosa accade quando si tradisce il proprio compito e mandato (Saruman), quando si voltano le spalle alla fede dei padri per volgersi al culto di Melkor. L’idolatria, cioè il voltare le spalle alla Verità, al Bene, a Dio, è per Tolkien l’origine stessa del male.  

In una sua lettera Tolkien ci tenne a precisare cosa intendeva con il conflitto bene – male, fede – idolatria: «Ne Il Signore degli Anelli il conflitto fondamentale non riguarda la libertà, che tuttavia è compresa. Riguarda Dio, e il diritto che Lui solo ha di ricevere onori divini». La più bella eredità di Tolkien sta dunque nel ricordarci che il compito della vita – come lo realizzano Gandalf, gli Hobbit, Aragorn- è quello di sanare ciò che è malato, lasciando a chi verrà dopo di noi «terra buona e sana da coltivare». É quello di sanare se stessi, trasformandosi o, riconciliando la propria natura con quel dono proveniente dal divino definito “grazia”.

(Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana 15/15/2014 "Tolkien ci saluta. Chi ci difenderà adesso da Melkor?" di Paolo Gulisano)

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Tolkien: il mito e la grazia

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